L’Italia deve essere parte del processo
di stabilizzazione della Libia, anzi deve indirizzarlo e coordinarlo
perché è un interesse nazionale vitale, con ogni probabilità il più
importante. Sicurezza fisica e sicurezza economica sono le ragioni che
impongono una decisione importante: andare in Libia, senza se e senza
ma.
La Libia è oggi sostanzialmente
atomizzata e in balia di un processo di “somalizzazione”. Al momento ci
sono due parlamenti e due governi separati: Bengasi (governo di Ali
Zeidan) e Tripoli (Abdullah al-Thani e il suo nuovo – e più “laico” –
governo che si è dovuto trasferire a Tobruk).
E proprio quest’ultimo, inizialmente
riconosciuto dalla Comunità internazionale come legittimo, è stato
dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema libica – complicando la già
preoccupante e fragile situazione politica.
Dalla Cirenaica alla Tripolitania,in
particolare a Bengasi, Tripoli, Misurata e Tobruk, la Libia è teatro di
guerra aperta tra milizie islamiche e forze governative; la milizia
jihadista Ansar-al Sharia ha proclamato l’emirato islamico a Bengasi e
Derna, non esitando a dichiarare l’alleanza con l’ISIS di al-Baghdadi,
di cui è divenuto uno dei rappresentanti in franchising del
marchio in Libia. Il virus jihadista è in fase di espansione endemica e
rischia di minacciare direttamente i nostri vitali interessi nazionali.
L’Italia è partner privilegiato della
Libia da almeno quarant’anni, con solide relazioni economico-commerciali
anche nelle fasi di tensione a livello politico, e la sicurezza degli
approvvigionamenti di petrolio e gas rappresenta la componente
fondamentale delle relazioni bilaterali; prima del crollo del regime di
Gheddafi, l’Italia importava circa un quarto del proprio fabbisogno
energetico dalla Libia.In particolare, l’ENI ha una presenza consolidata
nel paese con contratti fino al 2042 (petrolio) e 2047 (gas), in
Cirenaica e in Tripolitania.
E proprio l’Eni ha storicamente giocato
un ruolo importante riuscendo ad ottenere risultati positivi in
trattative commerciali con il governo libico, spesso accettando
condizioni valutate non favorevolmente da altri antagonisti commerciali,
anche grazie a un legame “politico” privilegiato.
La Libia oggi è al collasso e rischia di
minacciare gli interessi vitali dell’Italia; le risorse energetiche
rimangono così l’unica garanzia di stabilità futura poiché, se il flusso
si dovesse arrestare, il rischio di una nuova Somalia sul Mediterraneo è
reale e a pagare una buona parte delle conseguenze saremmo noi,
l’Italia.
Ma la Libia non è solo ENI, petrolio e
gas. Ciò che lega Tripoli all’Italia sono anche gli intensi scambi
commerciali e la presenza – prima delle rivolte – di circa 200 aziende
italiane che hanno lasciato il paese a causa della forte insicurezza.
Si tratta di aziende che si sono
aggiudicate contratti infrastrutturali di grande portata e che sono
stati funzionali al consolidamento del ruolo italiano nell’economia
libica, anche attraverso la creazione di quelle reti e quei rapporti che
ora rischiano di scomparire – e si parla di circa un miliardo di
crediti non riscossi che potrebbero svanire nel nulla se la Libia
finisse fuori controllo.
E una Libia fuori controllo non farebbe
che aumentare la minaccia diretta, da un lato, del violento fenomeno di
jihadismo radicale e, dall’altro, dell’incontrollata pressione
demografica extracomunitaria (poiché attraverso la Libia passa oggi il
93% dell’immigrazione clandestina verso il continente europeo).
La crisi libica, così come possiamo
osservarla oggi, mette sempre più a repentaglio la tenuta territoriale,
rafforza le tendenze separatiste e il conflitto centro-periferia di
un’eterogenea realtà tribale a cui si somma il fattore “jihadismo
regionale/globale”.
È dunque necessario agire, evitando un
deleterio effetto domino che avrebbe conseguenze irrimediabili sui
fronti energetico, della sicurezza dello Stato e dell’immigrazione. Ma
come?
Certamente non intervenendo direttamente
con una forza militare a guida occidentale, poiché ciò accenderebbe
ulteriormente le frange fondamentaliste e aumenterebbe il fenomeno del
volontarismo jihadista, anche attirando l’attenzione dei “lupi solitari”
– attaccanti-terroristi autonomi – contro obiettivi su territorio
nazionale ed europeo. Si rende dunque necessaria, in primis, la
nomina di un inviato speciale – così come per l’Afghanistan – a cui
affidare la responsabilità di un processo di riconciliazione nazionale
È altresì necessario che Europa e Onu
intraprendano un percorso politico finalizzato alla creazione di una
cornice internazionale che dia all’Italia l’onere – e l’onore – di
contribuire alla stabilità libica attraverso un ruolo di coordinamento
di una forza di interposizione, ma anche di “advise”, “train” e “assist”,
formata da truppe nord-africane a cui l’Italia potrebbe contribuire con
assetti di comando e controllo, uomini, mezzi e materiali.
Tutto ciò potrà realizzarsi se verrà
avviata una concomitante iniziativa finalizzata alla creazione di “basi
umanitarie e strategiche” in Libia, purché su mandato dell’Onu; basi
funzionali al rafforzamento delle forze di sicurezza, al riavvio del
settore energetico, al contrasto alla tratta/mercato di esseri umani
attraverso il Mediterraneo.
E proprio il Mediterraneo deve essere al
centro di un approccio strategico, non solamente italiano, bensì
europeo; poiché dalla stabilità dell’area mediterranea discende la
sicurezza dell’intera Europa.
Ciò richiede uno sforzo intellettuale e
una capacità di adattamento alle dinamiche socio-politiche che si stanno
imponendo; nel concreto, è opportuno non escludere la possibilità di
accoglimento delle istanze autonomiste (o anche indipendentiste) che da
più parti provengono e che potrebbero spingere verso una Libia molto
diversa da quella che abbiamo conosciuto. La geografia politica è
cambiata, di questo dobbiamo farcene una ragione; l’intera area del
Medio Oriente e del Nord Africa è in fase di ridefinizione, cambiano gli
equilibri, le convenienze e i confini. L’Italia deve essere abile nel
comprendere gli sviluppi di tale processo di cambiamento e inserirsi in
esso con coraggio razionale.
Siamo dunque pronti ad assumerci la responsabilità della nostra sicurezza?
Le recenti dichiarazioni del titolare
della Farnesina, Paolo Gentiloni, sembrano portare l’Italia in questa
direzione, purché a chiederlo sia l’Onu. Una richiesta che potrebbe non
tardare ad arrivare.
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