di Claudio Bertolotti
L’ultima
offensiva israeliana contro Hamas si inserisce nel complesso contesto di
conflittualità regionale che coinvolge, direttamente e indirettamente, anche il
Libano.
In
quest’ottica, non è possibile non menzionare Israele e parlare di come la crisi
siriana – e in minima parte le recenti azioni militari all’interno della
Striscia di Gaza (operazione “Protective Edge”) – stia influenzando il suo
rapporto con il Paese dei Cedri.
L’approccio
generale di Israele alla crisi regionale – con particolare attenzione alla
Siria e all’Iraq – riflette in parte le preoccupazioni per il crescente peso di
importanti attori non statali, come il libanese Hezbollah (operativo in Siria e
in grado di controllare la quasi totalità dell’area a ridosso della “Linea
Blu”) e, più recentemente, il gruppo qaedista Jabhat al-Nusra (contrapposto
proprio ad Hezbollah nel conflitto siriano) e le decine di gruppi radicali di
opposizione armata operativi in Siria, ma presenti e in minima parte attivi
anche in territorio libanese.
Pur
tenendo conto degli storici rapporti conflittuali caratterizzanti le dinamiche
diplomatico-militari tra Siria e Israele, l’attenzione dello stato ebraico è
concentrata:
- sull’attività di
riduzione delle capacità operative di Hamas impegnate nell’offensiva (tattica e
psicologica) contro lo stato e il territorio israeliano;
- sulle possibili
e negative ripercussioni di un eventuale collasso del regime bahatista siriano.
L’approccio razionale di Hezbollah
Ragioni di opportunità, indurrebbero
Hezbollah e Israele – soggetti da sempre contrapposti – a non riaccendere le
storiche conflittualità; conflittualità che avrebbero ripercussioni negative
per entrambi: certamente per Hezbollah, attualmente impegnato nel conflitto
siriano con circa 4-5.000 dei suoi elementi operativi, e altrettanto per
Israele, concentrato nella repressione dell’offensiva di Hamas. Una condizione
di opportuno vantaggio per il Libano, frutto di una scelta razionale da parte
della dirigenza del partito sciita filo-iraniano, unico soggetto forte in grado
di controllare il sud del paese.
Il pericolo concreto deriverebbe invece
dalla vivace e ingombrante presenza di gruppi radicali sunniti di orientamento
jihadista, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali di un Hezbollah
desideroso di affrancarsi da qualunque azione che possa turbare l’attuale precario
equilibrio e che allontani l’ipotesi di confronto diretto con Israele. Anche a
luglio, sono stati registrati violenti scontri tra Hezbollah e al-Nusra sul
confine tra Siria e Libano all’interno dei villaggi di Arsal e di Al-Fakiha.
Secondo fonti locali, sarebbero morti due membri di Hezbollah e dozzine di
combattenti del gruppo radicale siriano.
In tale contesto, le reazioni ai quattro
improvvisati e isolati lanci di razzi dal Libano verso la Galilea
settentrionale (area di Kiryat Shmona), avvenuti tra l’11 e il 14 luglio,
rappresentano la cartina tornasole del tacito accordo tra le parti:
- Israele ha
risposto al fuoco con alcuni colpi di artiglieria – e non avrebbe potuto essere
diversamente – colpendo un’area (Hasbaya, nel settore orientale della “Linea
Blu”) lontana da centri abitati e distante alcuni chilometri dal luogo del
lancio; in pratica un’azione dimostrativa priva di conseguenze concrete (né
danni materiali, né vittime).
- La polizia
libanese ha provveduto all’arresto immediato (all’interno di un’area sotto il
controllo di Hezbollah) di Hussein Atwe, il solitario “combattente” reo
confesso di aver lanciato i razzi Katiuscia da 107 millimetri, con
il supporto di altri due “palestinesi”, e di essere parte del gruppo radicale
della Jamaa Islamiya (elemento di quella galassia fondamentalista sunnita che
Hezbollah afferma di voler combattere); con ciò prevenendo una possibile
reazione formale (leggasi accusa) da parte di Israele.
- Hezbollah
(nemico storico di Israele), fermamente intenzionato ad allontanare l’ipotesi
di un coinvolgimento diretto, ha puntato il dito contro generici
“fondamentalisti sunniti” (in un secondo momento indicati come appartenenti
alla Jamaa Islamiya, escludendo lo “Stato Islamico” o Jabhat al-Nusra) e si è
dissociato dall’operato di Hamas (e dalla Fratellanza Musulmana ad esso
collegata e impegnata in Siria contro il regime di Assad) esprimendo il proprio
esclusivo “sostegno politico e morale alla resistenza palestinese”, ma nulla di
più e, in particolare, niente di concreto; con buona pace di Israele e dello
stesso Libano.
- Infine, la
missione delle Nazioni Unite, Unifil, attraverso la dichiarazione del generale
italiano Paolo Serra, ha definito il lancio di razzi dal territorio libanese
come una violazione della risoluzione Onu n.1701 che va “sicuramente a scuotere
la stabilità della regione”. Ma al di là delle parole di circostanza, il sud
del Libano continua a rimanere oggi l’area più stabile dell’intero Medio
Oriente.
I venti siriani sul Libano
L’incremento
delle violazioni, da parte di elementi armati, nell’area demilitarizzata sul
fronte siriano del Golan (alcuni dei razzi caduti su territorio israeliano sono
stati lanciati da quest’area) suggerisce una limitata capacità del governo
centrale di Damasco di rispettare, e far rispettare, quei trattati grazie ai
quali negli ultimi quarant’anni è stata garantita la pace.
Israele
si trova così di fronte ad una serie di importanti sfide.
La
prima di queste è rappresentata dalla volontà di contrasto all’acquisizione da
parte di Hezbollah di missili terra-aria, missili balistici e armamenti chimici
provenienti dagli arsenali siriani.
In
tale ottica, Israele si sarebbe concentrato sull’attività di intelligence e su azioni operative
mirate, come testimoniano gli attacchi contro convogli trasportanti sofisticati
sistemi missilistici contraerei (“Fateh-10”) provenienti dall’Iran e destinati a
Hezbollah e, ancora, contro il centro di ricerche e studi siriano di Damasco,
indicato come centro di sviluppo e
produzione per armi biologiche e chimiche.
Ma
ciò che più preoccupa Israele è il possibile “end state” siriano.
Da
una parte, si impongono i timori di una Siria atomizzata in mano a gruppi di
orientamento jihadista o la sostituzione del governo bahatista con un
“repubblica islamica” che aprirebbe le porte ai gruppi salafiti, una diretta ed
esplicita minaccia alla sicurezza di Israele; dall’altra, l’alternativa più
probabile potrebbe essere la vittoria delle forze governative siriane, il che
non si tradurrebbe però in un mero ritorno allo status quo ante.
Il
futuro scenario potrebbe infatti essere rappresentato da un regime in mano agli
al-Assad (o comunque al partito al-Baath), indebolito sul piano esterno e ancor
più su quello interno e fortemente dipendente da un Hezbollah che, da questo rapporto
simbiotico, potrebbe ottenere significativi vantaggi sul fronte libanese.
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