Il Califfato islamico, Stato Islamico, IS, ISIS o ISIL – Islamic State in Iraq and Sham (o Levant)
– sebbene non riconosciuto sul piano formale è oggi, su quello
sostanziale, un proto-Stato teocratico (sunnita) in fase di espansione –
sia locale, sia globale – e in grado di detenere il monopolio della
violenza, gestire una propria economia, amministrare la “giustizia” e
offrire servizi pubblici a una popolazione stimata di circa sei milioni
di abitanti, tra Iraq e Siria.
Il nemico definito dello Stato Islamico
(d’ora in poi IS) è l’Occidente, questo sul piano politico-strategico; a
livello operativo e tattico i nemici sono tutti coloro che non
aderiscono all’ideologia fondamentalista del nuovo jihad 3.0 (quando ormai al-Qa’ida
rappresenta il jihadismo 2.0) o che si contrappongono alla
realizzazione del Califfato islamico assoluto propugnato dall’IS:
cristiani, yazidi, shabaki, turcomanni, sciiti, altri sunniti, ecc..
tutti destinati alla conversione forzata, in alternativa alla morte,
alla schiavitù (nel caso delle donne) o alla fuga.
Deve preoccupare la capacità dell’IS di attirare volontari del jihad
da tutto il mondo, e anche dall’Europa; una capacità che si basa, da un
lato, sullo sfruttamento di un diffuso senso di frustrazione
individuale (presente in alcuni soggetti “europei”, musulmani, di
origine straniera – spesso di seconda o terza generazione) alimentato da
una raffinata propaganda ideologica e, dall’altro, sulla forte
debolezza culturale e istituzionale europea che svela l’incapacità dei
governi nazionali di affrontare con realismo lo scontro con l’IS e le
crescenti derive fondamentaliste all’interno della stessa Europa, dove
aumenta la probabilità di attacchi diretti di natura terroristica,
isolata e casuale (jihadismo globale) a cui potrebbe contribuire anche
l’incontenuto flusso migratorio attraverso il Mediterraneo[1].
Altro fattore di preoccupazione è il
coinvolgimento di numerose comunità sunnite locali e di molte donne
all’interno dei territori sotto il controllo dell’IS; comunità (e donne)
che decidono di aderire all’ideologia distruttiva jihadista in nome di
una difesa e di una tutela dei diritti del proprio gruppo (jihadismo
locale).
Questo Stato Islamico è inoltre in grado
di alimentare una spirale di violenza capace di coinvolgere altri
gruppi fondamentalisti del jihad, grandi e piccoli, attraverso
una corsa all’attenzione mass-mediatica funzionale alla pubblicità, al
reclutamento e alla raccolta di fondi.
Un coinvolgimento e una corsa alla realizzazione di eventi shock
ed estremi supportati da una narrativa capace e da una virulenta
attività di propaganda radicale e ideologizzata capaci di sfruttare la
velocità del Web, l’amplificazione mass-mediatica dell’immagine, le
potenzialità dei social-network.
L’editoriale di Luciano Larivera pubblicato su Civiltà Cattolica[2]
di settembre, l’importante periodico del Vaticano, lancia un chiaro
allarme richiamando alla necessità di una Comunità internazionale
convinta nel fermare le atrocità e le violenze in corso.
Nello specifico, nel ribadire la
contrarietà di una violenza bellica priva di una visione a lungo termine
e basata su bombardamenti dalla dubbia efficacia, l’editoriale
evidenzia come occorra «conoscere e maneggiare ancora meglio tutti i
mezzi, anche quelli della comunicazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della
violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un
conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e
far funzionare lo «Stato di diritto[3]».
Si rende dunque necessario, anche al
fine di contenere il fenomeno di esaltazione e reclutamento globale,
agire subito e con fermezza poiché «interrompere la parabola ascendente
dell’IS, sul fronte bellico, ne riduce il fascino romantico tra molti
musulmani, e quindi il conformismo di aggregarsi ai “vincenti”. Il marketing dell’IS, in particolare sui social network, ma anche con la sua rivista periodica on line,
i suoi predicatori e il teologo e autoproclamato successore di Maometto
Abu Bakr al-Baghdadi, sta penetrando tra i musulmani in Occidente,
dove si è diffusa una comunicazione appiattita (“il politicamente
corretto”) e una società individualistica, emotiva, edonistica e
dell’apparenza[4]».
Ma per contenere il fenomeno jihadista,
gli strateghi della Coalizione debbono avere ben chiaro chi è il
soggetto fondamentalista, quale l’ideologia trainante del gruppo di cui
si sente parte, quali gli scopi ma anche i mezzi di cui si serve. Se
tale consapevolezza dovesse mancare, il risultato di un qualunque
intervento sarebbe fallimentare, né più né meno di quanto già accaduto
in Iraq e di quanto stia avvenendo in Afghanistan (in particolare
quest’ultimo dove gli attacchi in forze contro i gruppi di opposizione
non hanno fatto che aumentare il numero di mujaheddin e il sostegno delle comunità nei loro confronti).
Un ulteriore fattore da tenere in
considerazione per la definizione e per il perseguimento di una
strategia di contrasto del problema è che con l’IS non è possibile
dialogare, né puntare a una soluzione di compromesso, semplicemente
perché per i fondamentalisti il compromesso non esiste.
La fanatica determinazione dell’IS
In primis, i gruppi di
opposizione di stampo terrorista godono del notevole vantaggio
rappresentato dalla certezza della copertura mediatica; molto più che in
qualsiasi altro tipo di conflitto, quello contemporaneo catalizza
l’attenzione del pubblico internazionale, spettatore passivo e soggetto
potenziale dell’azione terrorista. Ciò produce un diffuso senso di
insicurezza, impotenza, a cui gli strumenti politici non riescono
nell’immediato a porre freno.
L’attenzione dei media è tanto
più diffusa e immediata quanto più è crudele l’immagine trasmessa,
quanto più terrificante è il messaggio diffuso; e ciò porta a
un’amplificazione del messaggio, della sua finalità: la determinazione e
la capacità di poter condurre un attacco diretto nel cuore del
territorio nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento.
In tale quadro, l’IS ha saputo sfruttare
magistralmente le tecniche della guerra psicologica attraverso le
esecuzioni di “prigionieri” occidentali, dal forte valore simbolico; si
guardi agli abiti fatti indossare dai condannati a morte che pretendono
di porre sullo stesso piano i prigionieri in mano dell’IS con quelli
detenuti dagli Stati Uniti, il taglio della gola – al pari di un
sacrificio animale –, le dichiarazioni politiche indirizzate a capi di
Stato – il presidente Obama in primis; tali esecuzioni
trasmesse e diffuse attraverso il Web sono lo strumento ideale per
amplificare gli effetti sulla psiche dell’osservatore.
La fredda crudeltà delle esecuzioni, la
determinazione degli esecutori e la diffusione mediatica degli eventi
sono tutti fattori che aumentano la sensazione di paura e il senso
d’insicurezza tra la popolazione. Una tecnica che sfrutta le
potenzialità dell’immagine via Web che, dal punto di vista tecnico, si
presenta semplice e con dispendio limitato in termini di sforzi
economici e materiali. Un video è economico e facile da preparare; per
un’azione sono infatti sufficienti una videocamera, un software, una connessione internet: il risultato finale è estremamente vantaggioso.
Oggi, la collaborazione tra i vari gruppi votati al jihad
ha portato a un sensibile aumento di “azioni spettacolari” e
mediaticamente appaganti, capaci di garantire una eco mediatica
amplificata, difficile da conseguire attraverso azioni “convenzionali”:
amplificazione mediatica che è uno dei principali obiettivi dell’IS.
Il linguaggio dei terroristi attraverso la propaganda e il Web: giustificare la violenza in nome della religione
La violenza religiosa a cui assistiamo è
la conseguenza di tendenze distorte in senso radicale. Una violenza che
è frutto di un’elaborazione intellettuale che cerca le giustificazioni
di atti terribili nel nome di un dio, di una fede, e le somma a
rivendicazioni di carattere politico e sociale. Questi due termini –
violenza e religione – vengono presentati come affini e complementari, e
così sono recepiti da alcuni credenti come invito alla giustizia divina
inflitta attraverso la violenza terrena. Tanto più che «il potere che
la religione ha di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare
con immagini di morte»[5].
L’incitamento ad atti terroristici in
nome della fede passa attraverso un processo di demonizzazione del
nemico che trasforma la lotta terrena in una guerra tra martiri e
demoni. La religione ha dunque un ruolo fondamentale, in quanto offre
giustificazioni morali per uccidere ma, accanto ad essa, gli attivisti
radicali sono riusciti a introdurre la percezione di una cospirazione
politica internazionale guidata dall’Occidente. Hanno tratto dalla
religione una propria identità politica e la legittimità per coltivare
ideologie piene di rancore[6].
L’idea del radicalismo religioso si
costruisce su un nucleo rigido e monolitico. Una società fondamentalista
alleva i piccoli con criteri educativi che distinguono in maniera netta
gli amici e i nemici, il bene e il male, il bello e il brutto, il
giusto e lo sbagliato: e la significativa presenza di bambini e
adolescenti tra le file dell’IS deve essere tenuta in considerazione in
virtù della minaccia futura.
Inoltre, alla base del fondamentalismo
vi è un senso di persecutorietà del male, identificato in ciò che è
“altro”, estraneo, e che come tale deve essere annientato a qualunque
costo. In questo senso, il nesso tra aggressività e fondamentalismo lo
troviamo nella volontà di infierire sul nemico con un gesto dimostrativo
violento: la morte – del nemico ma anche quella del fondamentalista/mujaheddin che in questo modo diventa “martire” – è così recepita come conseguenza giusta e necessaria.
La crisi che alimenta il fondamentalismo
L’Islam sta attraversando proprio in
questo momento un processo di svuotamento di valori, cui si aggiungono
altri fenomeni quali la corruzione morale: è un dramma evolutivo sociale
che tende alla secolarizzazione percepita da alcuni come allontanamento
volontario dalla fede in Dio, corruzione di costumi e tradizioni.
Il fondamentalismo è conseguenza perciò
«di un periodo di crisi, quale ne sia l’origine, il bisogno di
riscoprire radici e fondamenti, su cui ricostruire e rinnovare. Il
fondamentalismo si ripropone proprio nei periodi di crisi dove si fa
sentire un bisogno di ritornare a un passato più o meno idealizzato,
spesso mai esistito, per rafforzare l’identità di chi si sente, a torto o
a ragione, minacciato[7]». E ciò si somma agli interessi strategici e
al ruolo internazionale delle grandi potenze occidentali – in
particolare gli Stati Uniti.
Le ragioni del fondamentalismo vengono
così alimentate da un disagio che si scatena reagendo a forme di
presunta (o effettiva) oppressione politica, militare, culturale e
sociale.
Ideologia fondamentalista e terrorismo: azione o reazione?
Quello a cui stiamo assistendo, ma di
cui siamo inevitabilmente parte, è un conflitto che si sposta anche sul
piano culturale; non dovremo allora stupirci quando a breve tornerà in
voga – verosimilmente a sproposito – il concetto, archiviato da qualche
anno, di “scontro di civiltà[8]”.
Vi è da parte dei soggetti che fanno
parte dell’IS, e di alcune comunità che ne supportano, o quantomeno non
ne condannano l’operato, l’angosciante percezione di essere “sotto
attacco”, violati, e la convinzione che le proprie azioni non siano
altro che una legittima reazione alle violenze subite. L’attentato di
risposta, l’esecuzione pubblica di “prigionieri”, la minaccia di
attentati in Europa, vengono per questo presentati come moralmente
giustificati. E se nell’appello alla “guerra giusta” dell’IS non vengono
escluse le azioni contro i civili (in Oriente come in Occidente), la
ragione sta nel fatto che in questo conflitto – per i militanti dell’IS –
“non esistono vittime innocenti”: l’uccisione di uomini, donne e
bambini appartenenti ad altri gruppi religiosi ne è la conferma.
Lo scrittore islamico che più ha
influenzato la società musulmana per quanto riguarda il concetto di
jihadè stato Abd al-Faraj, il quale sosteneva che «il vero soldato
dell’Islam può usare qualsiasi mezzo a sua disposizione per raggiungere
un giusto scopo; inganno, sotterfugio e violenza sono specificatamente
citati[9]». Questo modo di pensare, amplificato, riadattato e
radicalizzato si è inserito in una corrente politica islamica che ha
ispirato molti dei soggetti e dei gruppi che hanno aderito alla lotta
senza quartiere che sta imperversando in Medio Oriente.
Come fermare l’IS?
Fermare l’IS impone di:
- affrontare la questione nel suo complesso, e non a livello locale relegando all’interno di confini fittizi il problema – la Libia, l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ecc..: confini nazionali che esistono solo formalmente, se esistono, ma non nella sostanza;
- adottare un approccio olistico e multidimensionale che coinvolga tutti i livelli (politico, diplomatico, sociale, culturale, militare, economico, religioso) e tutte le parti in causa;
- indurre il governo iracheno a risolvere le conflittualità di natura settaria (che alimentano la base di supporto all’IS) a premessa di un equilibrio stabile e una difesa nazionale;
- avviare un concreto rapporto di cooperazione con il governo siriano, il cui esercito è l’unico (insieme agli Hezbollah libanesi) che al momento si oppone all’espansione dell’IS;
- collaborare l’Iran, attualmente già impegnato a sostenere e guidare le milizie sciite irachene contro l’IS in Iraq;
- disporre e impiegare uno strumento militare adeguato.
E nel merito dello strumento militare,
l’attuale soluzione armata – a distanza e basata su un limitato supporto
aereo e sulla presenza di alcune unità di forze speciali – è limitata e
dalla dubbia efficacia; perseguire una strategia di intervento “dietro
le quinte” non è dunque né auspicabile né utile.
Il summit Nato in Galles del 4-5 settembre ha definito una bozza di linea strategica e di una partnership
NATO-Iraq per contrastare l’avanzata dell’IS; ma la tipologia di
assistenza diretta al governo iracheno – in aggiunta al supporto di
fuoco aereo e di poche forze speciali sul terreno – sarà di “defence capacity building“, ossia addestramento e consulenza, assistenza umanitaria benché non escluda ulteriori e più significativi sviluppi futuri.
Ma se da un lato, una strategia basata
unicamente sullo strumento militare è destinata a fallire, dall’altro,
pensare di voler “distruggere” l’IS in Iraq e Siria senza “scarponi sul
terreno” sotto l’egida delle Nazioni Unite, né occidentali né della
Nato, è un grande errore che può portare a conseguenze opposte a quelle
desiderate, quali la prosecuzione delle atrocità e la presenza e
consolidamento sul terreno dell’IS (anche grazie al supporto delle
comunità locali).
All’IS deve perciò essere negato
l’accesso a qualunque forma di risorsa finanziaria, alle fonti
energetiche e idriche, al rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti;
così come devono essere contrastati, con il massimo sforzo, l’opera di
propaganda e reclutamento, a livello regionale ma ancor più all’interno
degli stati europei. Ma l’IS deve anche essere combattuto con
convinzione ed efficacia sul terreno.
Tutto ciò dovrà avvenire di pari passo
ad una sinergica e decisa azione diplomatica nei confronti dei soggetti
(statali e non) che sostengono in qualunque forma l’IS, e al simultaneo
sforzo sul piano culturale e religioso che coinvolga gli attori
regionali. Ma un intervento diretto, certamente diverso dai precedenti
di Afghanistan e Iraq, ridimensionato e low-profile, non può mancare.
Se la politica del dialogo e del
compromesso non è perseguibile con l’IS, lo è certamente con gli attori
regionali coinvolti o minacciati in qualunque forma dalla minaccia
terroristica; dialogo e compromesso che devono, in primo luogo, essere
indirizzati alla soluzione delle conflittualità settarie locali e
regionali, in Iraq come in Siria, accettando, in secondo luogo, il ruolo
di primo piano di una realtà curda sempre più forte; è infine
necessario il coinvolgimento di importanti attori quali la Federazione
Russa e l’Iran.
Prima di tutto è però necessario
possedere un’adeguata consapevolezza di chi si sta combattendo e di chi,
al contrario, si vuole sostenere[10].
Claudio Bertolotti (PhD),
analista strategico esterno del CeMiSS, è specializzato in sociologia
dell’Islam, si occupa di terrorismo, minaccia asimmetrica e attacchi
suicidi.
[1]ITSTIME – Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, Isis, la denuncia: “Intelligence algerina ha identificato 130 infiltrati tra i profughi”, in http://www.itstime.it/w/isis-la-denuncia-intelligence-algerina-ha-identificato-130-infiltrati-tra-i-profughi/.
[2]Luciano Larivera S.I., Fermare la tragedia umanitaria in Iraq, in «Civiltà Cattolica», Quaderno N°3941 del 06/09/2014 – (Civ. Catt. III 345-448 ).
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Mark Juergensmeyer M., Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 133 e segg.
[6] Claudio Bertolotti, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan, ed. Franco Angeli, Milano 2010, p. 36.
[7] Uccelli A., Psicologia analitica: religione e fondamentalismi religiosi, in Aletti M. e Rossi G., Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, CSE, Torino 2004, p. 110.
[8] Si rimanda a Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
[9] Cfr. Juergensmeyer M., op. cit., p. 87.
[10] È necessario conoscere prima di
agire, pena il rischio di vanificare sforzi e sacrifici; per questo
motivo si rende necessario il ricorso ad esperti d’area e la creazione
delle Unità di intermediazione culturale nel processo intelligence,
analisi delle informazioni e nella pianificazione/condotta delle
operazioni. Si rimanda alla figura dell’Unita di Intermediazione
Culturale (UIC) illustrata dal contributo del CeMiSS-CASD , in http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/Documents/ArticoloBertolotti_Insurgencycounterinsurgency2.pdf.
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