MENA Sguardi e Analisi di Claudio Bertolotti

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sabato 27 giugno 2015

Dalla Libia all’Afghanistan: l’ISIS esporta un modello di violenza transnazionale di successo

di Claudio Bertolotti

ISBN 978-88-99468-06-04

Claudio Bertolotti ci segnala come l’ISIS si sta espandendo anche in Afghanistan. Per contenerlo,contrastarlo e sconfiggerlo è ormai necessario rendersi conto che si tratta di una minaccia transnazionale e globale. Gli eventi politici, e gli episodi di violenza, che stanno caratterizzando il Medio Oriente e il Nord Africa non devono più essere analizzati come cose tra loro separate, ma come parte di un ampio piano politico basato su distruttivi principi ideologici.
Al contrario di AQIS (al-Qa'ida nel sub-continente indiano), l’ISIS ha iniziato un’efficace opera di penetrazione in Afghanistan attraverso l’affiliazione, la condotta di attività operative e il reclutamento di militanti, anche stranieri. Un recente report delle Nazioni Unite confermerebbe la presenza di migliaia di foreign fighter, provenienti da oltre cento paesi, tra le fila di al-Qa’ida e dell’ISIS o di altri gruppi affiliati; del totale almeno 6.500 sarebbero già operativi in Afghanistan, tra questi alcuni proverrebbero dalla storica organizzazione dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) recentemente passata dalla parte dello nascente Stato Islamico di Abu Bakr al-Bagdadi che, a meno di un anno dalla conquista della città irachena di Mosul, continua la sua strategica espansione dal Syraq a tutto il Grande Medio-Oriente, dalla Libia all’Afghanistan dove si contrappone a un’al-Qa’ida che sembra aver ripreso energia proprio con la comparsa del nuovo competitor; un competitor che è alla ricerca di ulteriori basi operative e nuovi alleati: in questo modo Pakistan e Afghanistan sono entrati a pieno titolo nella strategia della violenza dello Stato Islamico che si è imposto nel sub-continente indiano attraverso il brand “ISIS Wilayat Khorasan”.
E dopo la comparsa in Libia, con l’attacco suicida al ‘Corinthia Hotel’ di Tripoli nel mese di gennaio, l’ISIS – nonostante un’ipotesi di smentita – si sarebbe formalmente imposto in Afghanistan attraverso l’azione suicida che, il 18 aprile, ha ucciso 34 persone ferendone altre 125 a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, nell’est dell’Afghanistan.
Capacità tecnica e volontà offensiva: quale ruolo per gli attacchi suicidi?
Quello a cui assistiamo è un aumento degli attacchi suicidi sui piani quantitativo, qualitativo e geografico. Dalla Libia, all’Afghanistan, gli attacchi suicidi si sono imposti come tecnica vincente, indipendentemente dagli effettivi risultati sul campo di battaglia.
L’aumento della frequenza degli attacchi suicidi e la loro diffusione geografica sono chiari indicatori dell’accresciuta capacità ed esperienza tecnica e della permeabilità dei teatri operativi a gruppi insurrezionali esogeni. Ciò mostra quanto sia maturata nel tempo la consapevolezza dell’utilità di tale tecnica in un’ottica strategica di opposizione e non semplicemente come tattica sul campo di battaglia. In tale quadro si configurerebbe un processo evolutivo del fenomeno giunto ai giorni nostri attraverso un’amplificazione dell’offensiva sempre più spettacolare e strutturata, oltre che capace di adattarsi molto velocemente alle contromisure messe in atto dalle forze di sicurezza.
Successo o fallimento: quali i risultati?
Gli attacchi suicidi hanno confermato di essere una tecnica vincente innanzitutto sul piano mediatico. Anno dopo anno i gruppi di opposizione armata hanno saputo convogliare l’attenzione massmediatica, prima sul conflitto afghano e poi su quello in Syraq, attraverso una razionale regia strategica incentrata su azioni mediaticamente appaganti come gli attacchi suicidi multipli (commando); questo indipendentemente dal risultato «tattico» raggiunto.
In secondo luogo, hanno ottenuto risultati positivi sul piano della funzionalità operativa dove l’approccio razionale dei gruppi di opposizione ottiene come risultato tangibile il cosiddetto «blocco funzionale» (o «stop operativo»): danneggiamento di veicoli e installazioni, ferimento di addetti alla sicurezza, limitazione della capacità di manovra, riduzione del vantaggio tecnologico e del potenziale operativo. I risultati sono tangibili e hanno portato a ottenere, nel periodo 2011-2014, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 78% dei casi.
I risultati conseguiti a danno delle forze di sicurezza ne confermano la validità; e dunque per questa ragione la tecnica è stata utilizzata e affinata. Inoltre, ciò che si evince da un’analisi complessiva è che i gruppi di opposizione, grazie a un buon livello di information-sharing sono oggi in grado di condividere molto velocemente le nuove tecniche e tattiche.
Stando così le cose, l’impatto della tecnica suicida contribuirà a rendere più onerosa la missione di contrasto all’ISIS e i suoi affiliati?
I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E, in fatto di aggiornamento e adeguamento, i gruppi di opposizione tendono ad anticipare le forze di sicurezza: aumentare la capacità offensiva e il potenziale distruttivo di un attacco suicida è più veloce ed economico che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi).
Se sul piano propriamente militare si può quindi affermare che la rilevanza delle azioni suicide è significativa, è altresì evidente l’efficacia nell’attività di reclutamento degli aspiranti attaccanti. In sintesi:
- a livello strategico gli attacchi suicidi hanno ottenuto l’attenzione dei media regionali e internazionali nel 78% dei casi mentre le azioni multiple/commando hanno ottenuto un’attenzione mediatica pari al 100%.
- a livello operativo gli attacchi hanno causato il blocco funzionale delle forze di sicurezza in sette casi su dieci (73% in media).
- Infine, a livello tattico il successo è pari, nel 2011, al 57% dei casi a fronte di un 36% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2014 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 54% e di fallimento del 30%.
Gli attacchi suicidi hanno dunque una rilevanza significativa tanto a livello operativo (limitazione della funzionalità operativa delle forze di sicurezza) quanto sul piano mediatico; quest’ultimo sfruttato a fini politico-propagandistici. Si può dunque parlare di strategia politico-militare i cui veri obiettivi consisterebbero prioritariamente in:
- attrarre l’attenzione mediatica al fine di influenzare le opinioni pubbliche, locali e straniere;
- concorrere a imporre una condizione di stress operativo (in particolare attraverso il «blocco funzionale»);
- creare uno stato di insicurezza generale con ripercussioni su opinione pubblica, piano sociale interno e lotta per il potere a livello locale.
Costi contenuti ed effetti immediati e amplificati sono i punti di forza alla base delle spettacolarizzazione della violenza; una tecnica che continuerà a contribuire al raggiungimento di significativi risultati a livello strategico, operativo, e non trascurabili sul piano tattico.
Sul piano qualitativo, il 2014 si è dimostrato essere l’anno dei maggiori risultati ottenuti dai gruppi di opposizione armata attraverso la spettacolarizzazione degli attacchi suicidi: aumento del blocco funzionale, incremento nel numero di uccisi e maggiore attenzione mediatica; rimandando per un opportuno approfondimento all’articolo che verrà pubblicato sul numero 2/2015 di ‘Sicurezza, Terrorismo e Società’, possiamo valutare come altamente probabile già nel breve-medio periodo un’evoluzione incrementale degli attacchi suicidi sia sul piano quantitativo-qualitativo sia su quello geografico.

ISBN 978-88-99468-06-04

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