MENA Sguardi e Analisi di Claudio Bertolotti

MENA Sguardi e Analisi di Claudio Bertolotti

domenica 30 novembre 2014

Analisi: le conseguenze della crisi siriana sul Libano



di Claudio Bertolotti


La cosiddetta “primavera libanese” del 2005 – conosciuta come “intifada dell’indipendenza” – ha anticipato la più nota, recente (ma tutt’altro che felice) “primavera araba”; allora centinaia di migliaia di libanesi scesero in piazza in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.
Quel gesto, in parte spontaneo, in parte organizzato, contribuì a indurre il regime siriano a ritirare le truppe dal Libano – dopo quasi trent’anni – e aprì simbolicamente la strada a un ripristino della sovranità e dell’indipendenza del paese. A quei fatti sono seguiti i più recenti eventi: l’iniziale manifestazione di protesta siriana, la successiva insurrezione, la guerra civile e quella transnazionale che ne è conseguita hanno fortemente indebolito la tendenza damascena a influenzare le dinamiche interne libanesi.
Ciò nonostante non si può dire che il Libano sia in una condizione di tranquillità, tutt’altro. In un contesto di crescente tensione politica e confessionale, il vuoto lasciato dall’opera di influenza di Damasco è divenuto terreno di contesa, anche violenta, tra i protagonisti delle vicende locali – Hezbollah e gruppi sunniti in primis – mettendo in pericolo il fragile equilibrio interno.
In uno scenario regionale inedito e senza poter più fare affidamento sull’arbitrato siriano, i principali attori politici e militari libanesi tendono, da una parte, a sostenere le fazioni in lotta in Siria cercando, dall’altra, di mantenersi il più possibile al riparo dall’incendio regionale.
In questo solco si pongono le posizioni ufficiali del governo libanese tendenti ad ammonire qualunque partecipazione diretta al conflitto siriano.
Ma oltre a ragioni di natura socio-culturale e confessionale, intervengono fattori e dinamiche di natura geo-politica a definire i ritmi di un’eterogenea quanto instabile conflittualità.
È dunque opportuno concentrarsi sui riflessi, diretti e indiretti, della crisi siriana sui principali soggetti che ne sono coinvolti. 

Delicate dinamiche politiche 
In un clima di forte incertezza derivante dal conflitto siriano, la logica comunitaria libanese ha permesso ai gruppi politici di prorogare il mandato parlamentare di diciassette mesi (fino al 20 novembre 2014) – ciò a fronte di un’empasse politica che ha impedito l’elezione del presidente della repubblica.
Un atto formalmente incostituzionale, il primo, che non è stato ostacolato neppure da parte dell’Alta corte costituzionale, grazie all’accordo informale tra le principali sigle politico-confessionali.
E, in contrasto alla ricerca di una soluzione politica di compromesso, le formazioni che in Libano sembrano aver mantenuto il consenso della propria base sono quelle rappresentative dei drusi e dei maroniti. Sciiti e sunniti sarebbero invece coinvolti in una complessa polarizzazione regionale.
Ma se sul fronte siriano vi è una partecipazione attiva, sul piano interno Hezbollah ha mostrato un atteggiamento più conciliante con i potenziali rivali e non avrebbe manifestato interesse a compiere azioni di forza per imporsi a livello nazionale[1]. 

Hezbollah

Per Hezbollah partecipare alla “guerra di resistenza” in Siria al fianco del governo di Al-Assad è un dovere.
Al di là della narrativa di parte sostenuta da efficaci strumenti mediatici, la realpolitik ha indotto Hezbollah ad assumere un ruolo attivo nel conflitto siriano per poter vedere garantite le linee di comunicazione con l’Iran. Inoltre, se il regime degli Al-Assad dovesse cedere, per Hezbollah si prospetterebbe uno scenario di “mortale” isolamento.
A ciò si unisce una buona dose di pragmatismo politico poiché Hezbollah condivide con il governo siriano, non la volontà di combattere i sunniti in Siria, bensì di contrapporsi alla diffusione del radicalismo dei gruppi fondamentalisti salafiti che dalla Siria potrebbero minacciare, in misura maggiore dopo l’ipotesi di caduta del regime di Damasco, Hezbollah all’interno dello stesso Libano (come alcuni recenti e violenti eventi confermerebbero). Inoltre, Hezbollah ha accettato lo schieramento di truppe dell’esercito libanese presso Dahie e la valle di Bekaa; questo evento, forse sottovalutato, si pone come contributo al processo di “normalizzazione” dello Stato libanese.
In breve, il disimpegno “militare” di Hezbollah dalla Siria è tutt’altro che probabile poiché si tratta di una presenza ritenuta (a ragione) strategicamente necessaria, sia sul piano politico, sia su quello militare: un instabile equilibrio tra vantaggi e svantaggi che potrebbe agevolare la realizzazione dello scenario più soddisfacente per Hezbollah.
Dunque, molte ragioni per essere in Siria, e poche per andarsene. 

La componente sunnita del Libano 
Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, molti sunniti libanesi si sono sentiti incoraggiati dalle vittorie dei “ribelli” correligionari siriani (e non siriani). Questo in una contrapposizione ideale a Hezbollah, impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco del regime di Al-Assad.
Inoltre, alcune componenti sunnite della società libanese hanno accusato l’esercito di sostenere gli sciiti filo-iraniani di Hezbollah nella contrapposizione con le forze militanti sunnite e in contrasto alla presenza di gruppi combattenti siriani rifugiatisi in Libano (in particolare a Tripoli).
Nel complesso, i sunniti libanesi si identificano sempre meno con la famiglia Hariri, il cui graduale ritiro politico e finanziario – recepito come tradimento – dalle roccaforti di Tripoli e Sidone e da alcune località nella Bekaa centrale, ha favorito l’emergere di attori locali autonomi, portando così a una chiusura verso le rispettive enclavi[2] regionali e cittadine. 

Profughi e rifugiati

Un fattore di preoccupazione è rappresentato dai profughi. L’UNHCR ha censito finora l’ingresso in Libano di oltre un milione di siriani a cui vanno a sommarsi i circa cinquecentomila non registrati. Una simile migrazione in un paese con una capacità demografica di quattro milioni di abitanti rappresenta un evidente problema che il Libano non può affrontare con le sue sole forze e che diverrà ancora più drammatico con l’allargarsi delle conflittualità regionali.
Per necessità di spazi da occupare, decine di migliaia di siriani sunniti della regione di Idlib e Hims sono ospitati nel Gabal Amil a maggioranza sciita e dominato da Hezbollah.
È massima allerta nel più affollato campo profughi palestinese del Libano –Ayn al Helwe – a sud di Beirut, dove secondo la stampa locale si anniderebbero "cellule dormienti" delle milizie radicali dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), operativi nella Siria orientale e nell'Iraq centro-occidentale. In relazione a tale possibilità, il 3 luglio si sarebbe svolta una riunione straordinaria a Sidone, tra i servizi di sicurezza dell'esercito e rappresentanti politici e di sicurezza palestinesi in Libano per valutare la possibilità di far accedere, per la prima volta dopo decenni, le forze di sicurezza nazionali nel campo profughi, alla periferia del porto meridionale libanese.
La questione dei rifugiati è dunque un fattore sul quale il sostegno della Comunità Internazionale (Europa prima di tutti) può fare la differenza alleviando le nascenti tensioni che la crisi tende invece ad accentuare.
La storia del Libano insegna come i rifugiati possano divenire fonte di instabilità, e l’attuale situazione ha raggiunto ormai un elevato livello di criticità, sebbene non vi siano indicatori di possibili manifestazioni violente di malcontento, almeno nel breve termine. 

Gruppi di opposizione armata jihadisti 
Non può mancare un riferimento al ruolo sempre più preoccupante dei gruppi di opposizione armata di orientamento jihadista operativi in Siria (e in Iraq), il cui ruolo ha significative ripercussioni sul Libano.
Il conflitto siriano ha attratto migliaia di combattenti jihadisti dall’Europa e dal Medio oriente e Nord Africa (Mena) che hanno risposto alla chiamata del Jihad in un numero sorprendentemente elevato, tanto da poter parlare di complicata galassia sunnita militante di attori non-statali.
Tra queste l’organizzazione Jabhat al-Nusra – al cui interno sono presenti alcune decine di gruppi combattenti – ma anche al-Qai’da Iraq che ha inviato un consistente gruppo di combattenti che si sono uniti alla controparte in Siria, tra i quali le “Brigate Abdullah Azzam”, Fatah al-Islam e i jihadisti salafiti giordani, che vanno a sommarsi agli oltre cento differenti gruppi armati. Una partecipazione che ha incentivato, come già accennato, l’intervento diretto dello sciita Hezbollah.
Una presenza preoccupante anche per la sicurezza libanese, come suggeriscono le tensioni e gli episodi di violenza tra sostenitori e oppositori del regime di Damasco, che si sono verificati a Tripoli e Sidone – dove avrebbero trovato ospitalità elementi provenienti dai gruppi di opposizione siriani –, e a Beirut, dove si contano gli attacchi suicidi e azioni dinamitarde che hanno provocato decine di vittime e feriti. 

Il ruolo della missione UNIFIL 
La forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite “Unifil” è schierata nel Libano meridionale, da sempre zona tampone e barometro delle relazioni siro-israeliane; un’area che oggi può essere considerata una zona relativamente tranquilla – forse la più “pacifica” di un medi oriente attraversato dai venti di guerra – ma non immune da possibili strascichi della crisi siriana. 
Nonostante alcuni incidenti poco significativi, non è fortunatamente avvenuta la temuta escalation di violenza; questo dimostra che né Israele, né Hezbollah sembrano essere interessati a riattivare le conflittualità nel breve periodo.
 Un fattore di potenziale, ma limitata, tensione tra le truppe di Unifil e Hezbollah potrebbe eventualmente essere rappresentato dall’inserimento dell’ala armata di Hezbollah, nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea (luglio 2013): una decisione che ha inciso sull’immagine di Hezbollah e la sua reputazione di fronte all’opinione pubblica libanese e regionale. Ciò potrebbe avere riflessi indiretti sulle relazioni tra il movimento e Unifil.

Dunque, elementi e potenziali sviluppi che confermano la necessità della missione delle Nazioni Unite.
A fronte del generalizzato quadro di instabilità regionale, si conferma la necessità che Unifil continui a operare, con una credibilità garantita da un robusto contingente militare, secondo le modalità e l’interpretazione che sino a ora ne hanno caratterizzato l’operato. 

Breve analisi conclusiva 
Di fronte alle attuali prospettive di ridefinizione degli equilibri regionali, la priorità di ogni singolo attore è quella di conservare l’influenza acquisita allontanando ogni potenziale minaccia, così da poter sfruttare al massimo i vantaggi derivanti da una relativa stabilità del Libano.
Una stabilità che non è solo un mezzo strategico di conservazione del potere da parte dei gruppi politici libanesi, ma è anche il fine che tali gruppi politici intendono raggiungere e mantenere. È sulla base di questa policy che, dopo l’inizio del conflitto in Siria, sembra essere nata in Libano un’inedita forma di “arbitrato domestico”, alimentato dal consenso e rafforzato dalla minaccia esterna[3]



[1] L. Trombetta, Equilibrismi Libanesi, in LIMES n. 9/2013, p. 189.
[2] L. Trombetta, cit.
[3] Contributo di pensiero di Claudio Graziano (generale di C.A., Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano) esposto in occasione del seminario “The consequences of the Syrian crisis upon Lebanon” (Roma, Camera dei Deputati, 25 novembre 2013) e  di Lorenzo Trombetta (Ph.D), arabista, giornalista esperto di questioni siro-libanesi (in Limes n.9/2013, cit.).

Libano: uno stallo politico che non dovrebbe preoccupare



di Claudio Bertolotti



Dopo tre tentativi “falliti” di eleggere il nuovo presidente della repubblica libanese, il 25 maggio scorso è scaduto il mandato del presidente uscente Michel Sleiman: il paese è così entrato in un periodo di presidenza vacante, la terza nella storia del Libano moderno dopo il 1988 e il 2007. Ma la situazione attuale si differenzia dalle precedenti per gli strascichi della guerra siriana; strascichi che vanno ben oltre le porte del paese dei cedri, tanto da poter considerare la guerra civile in Siria come una questione direttamente libanese (considerazione avvalorata dal coinvolgimento diretto di attori libanesi nello stesso conflitto, al fianco e contro il regime di Assad). 
Sul piano delle relazioni internazionali Arabia Saudita e Iran avrebbero avviato  un dialogo finalizzato alla stabilizzazione della Siria; se tale apertura fosse confermata ciò rappresenterebbe nel concreto un passo in avanti nel processo di riduzione delle conflittualità siriane scaturite con la guerra (e non causa della stessa). 
Ma la questione siriana pesa anche, e forse più, sul livello politico interno e sulla stessa sicurezza domestica; e data l’attuale instabilità, e le criticità connesse al coinvolgimento degli attori libanesi proprio nella sanguinosa guerra regionale che vede nella Siria il campo di battaglia formale, viene da più parti richiesto un impegno sostanziale da parte del primo ministro Tammam Salam affinché contribuisca a sciogliere i nodi di un empasse politico le cui conseguenze economiche e sociali destano preoccupazione, in particolare per la Comunità internazionale impegnata, anche militarmente, in Libano. Un tiepido ottimismo discende da alcune recenti dichiarazioni di funzionari sauditi che indurrebbero a non escludere la possibilità di una ripresa economica, in parte sostenuta da una politica di incentivazione allo stesso turismo saudita. 
Ma rimane pur sempre il problema della sicurezza a tenere frenata un’economia fortemente in bilico; e un qualunque incidente avrebbe ripercussioni drammatiche proprio sull’economia interna, il che provocherebbe contraccolpi, anche gravi, sul piano sociale: la stabilità interna passa, dunque, inevitabilmente attraverso un soddisfacente processo di stabilizzazione economica.



Libano: verso le elezioni presidenziali



di Claudio Bertolotti



Un lento processo parlamentare per l’elezione del presidente libanese ha caratterizzato l’ultimo mese nel “paese dei cedri”, nonostante l’invito al rispetto delle scadenze formali fatto del presidente della repubblica uscente Michel Suleiman, il cui mandato è in scadenza il 25 maggio.
Il parlamento libanese, preposto all’elezione della massima carica dello stato, non è riuscito nel compito per tre volte, la prima il 23 di aprile (quando erano necessari i due terzi dei voti), la seconda il 30 aprile (una maggioranza semplice), e ancora il 7 maggio quando il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha rinviato al successivo 15 maggio la seduta, poiché solo 73 parlamentari si erano presentati in aula per la votazione. I parlamentari del “Movimento Futuro” hanno accusato i loro avversari dell’“Alleanza dell’8 Marzo” di aver boicottato le elezioni. Il rischio, a questo punto possibile, consiste nel giungere al 25 maggio – giorno in cui decadrà l’attuale presidente – con un vuoto di potere, dove il presidente del consiglio sarà costretto ad assumere i poteri del Presidente della Repubblica”.
Sicurezza, conflittualità e situazione umanitaria
Sul piano della sicurezza, il 24 aprile scorso il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano, Derek Plumbly, si è ufficialmente incontrato con il primo ministro libanese Tammam Salam.
Nell’ambito di tale colloquio, le Nazioni Unite hanno confermato la riduzione degli episodi di violenza nella città di Tripoli – che hanno visto contrapporsi, tra gli altri, elementi alawiti pro-Assad e sunniti sostenitori dell’opposizione armata al regime siriano – con ciò evidenziando l’efficacia del graduale processo di sicurezza avviato dal governo libanese. In particolare, a conferma dell’impegno della Comunità internazionale nella stabilità del Libano, le Nazioni Unite hanno dichiarato che, in base ai colloqui di Roma di metà aprile, vi è la volontà di rafforzare l’impegno militare internazionale a favore delle forze armate libanesi a cui si unisce l’intenzione di intensificare lo sforzo a favore dei rifugiati.
In particolare, l’ultima ondata di violenza interessante la città di Tripoli iniziata il 20 febbraio e protrattasi per sei settimane ha provocato la morte di trenta persone, inclusi due soldati libanesi, e il ferimento di altre cento. Ondata di violenza che si è interrotta il 27 marzo all’indomani dell’applicazione del “security plan” per Tripoli  approvato dal governo centrale.
Tali episodi di violenza sono il segnale di conflittualità manifeste, alimentate dalla proliferazione di armi e dal coinvolgimento sempre più intenso di attori “non-statali” operativi a livello regionale, in particolare quelli direttamente coinvolti nel conflitto siriano.
La policy ufficiale del Libano nei confronti della crisi siriana è di non ingerenza. È però vero che lo stesso Hezbollah è direttamente coinvolto nel conflitto in Siria; e il flusso di armi e combattenti attraverso l’indefinito confine tra i due paesi ha contribuito ad aumentare gli arsenali bellici fuori dal controllo governativo. Una situazione che ha portato la valle della Bekaa a subire gli effetti diretti e indiretti di un conflitto di lunga durata; basti ricordare i razzi caduti sugli abitati sciiti e il flusso continuo e di difficile gestione dei profughi in fuga dalla vicina regione siriana di Qalamon e dalla città di Yabrud.
Nel complesso, in merito alla situazione umanitaria, ammontano a circa un milione i rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che vede contrapporsi il governo di Damasco e la “eterogenea galassia” dei gruppi di opposizione armata; il dato ufficiale si contrappone però a quello reale di un milione e mezzo di rifugiati complessivi presenti sul territorio libanese (con un flusso di circa 2.500 unità giornaliere). Dati che influiscono pesantemente sull’organizzazione ricettiva del Libano e sulla capacità di gestire le sempre maggiori criticità, politiche, organizzative, di sicurezza e sociali.