di Claudio Bertolotti
Un
lento processo parlamentare per l’elezione del presidente libanese ha
caratterizzato l’ultimo mese nel “paese dei cedri”, nonostante l’invito al
rispetto delle scadenze formali fatto del presidente della repubblica uscente
Michel Suleiman, il cui mandato è in scadenza il 25 maggio.
Il
parlamento libanese, preposto all’elezione della massima carica dello stato,
non è riuscito nel compito per tre volte, la prima il 23 di aprile (quando
erano necessari i due terzi dei voti), la seconda il 30 aprile (una maggioranza
semplice), e ancora il 7 maggio quando il presidente del parlamento libanese
Nabih Berri ha rinviato al successivo 15 maggio la seduta, poiché solo 73
parlamentari si erano presentati in aula per la votazione. I parlamentari del “Movimento
Futuro” hanno accusato i loro avversari dell’“Alleanza dell’8 Marzo” di aver
boicottato le elezioni. Il rischio, a questo punto possibile, consiste nel
giungere al 25 maggio – giorno in cui decadrà l’attuale presidente – con un
vuoto di potere, dove il presidente del consiglio sarà costretto ad assumere i
poteri del Presidente della Repubblica”.
Sicurezza,
conflittualità e situazione umanitaria
Sul
piano della sicurezza, il 24 aprile scorso il coordinatore speciale delle Nazioni
Unite per il Libano, Derek Plumbly, si è ufficialmente incontrato con il primo
ministro libanese Tammam Salam.
Nell’ambito
di tale colloquio, le Nazioni Unite hanno confermato la riduzione degli episodi
di violenza nella città di Tripoli – che hanno visto contrapporsi, tra gli
altri, elementi alawiti pro-Assad e sunniti sostenitori dell’opposizione armata
al regime siriano – con ciò evidenziando l’efficacia del graduale processo di
sicurezza avviato dal governo libanese. In particolare, a conferma dell’impegno
della Comunità internazionale nella stabilità del Libano, le Nazioni Unite
hanno dichiarato che, in base ai colloqui di Roma di metà aprile, vi è la
volontà di rafforzare l’impegno militare internazionale a favore delle forze
armate libanesi a cui si unisce l’intenzione di intensificare lo sforzo a
favore dei rifugiati.
In
particolare, l’ultima ondata di violenza interessante la città di Tripoli
iniziata il 20 febbraio e protrattasi per sei settimane ha provocato la morte
di trenta persone, inclusi due soldati libanesi, e il ferimento di altre cento.
Ondata di violenza che si è interrotta il 27 marzo all’indomani dell’applicazione
del “security plan” per Tripoli
approvato dal governo centrale.
Tali
episodi di violenza sono il segnale di conflittualità manifeste, alimentate
dalla proliferazione di armi e dal coinvolgimento sempre più intenso di attori “non-statali”
operativi a livello regionale, in particolare quelli direttamente coinvolti nel
conflitto siriano.
La policy ufficiale del Libano nei
confronti della crisi siriana è di non ingerenza. È però vero che lo stesso
Hezbollah è direttamente coinvolto nel conflitto in Siria; e il flusso di armi
e combattenti attraverso l’indefinito confine tra i due paesi ha contribuito ad
aumentare gli arsenali bellici fuori dal controllo governativo. Una situazione
che ha portato la valle della Bekaa a subire gli effetti diretti e indiretti di
un conflitto di lunga durata; basti ricordare i razzi caduti sugli abitati
sciiti e il flusso continuo e di difficile gestione dei profughi in fuga dalla
vicina regione siriana di Qalamon e dalla città di Yabrud.
Nel
complesso, in merito alla situazione umanitaria, ammontano a circa un milione i
rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che vede contrapporsi il governo
di Damasco e la “eterogenea galassia” dei gruppi di opposizione armata; il dato
ufficiale si contrappone però a quello reale di un milione e mezzo di rifugiati
complessivi presenti sul territorio libanese (con un flusso di circa 2.500
unità giornaliere). Dati che influiscono pesantemente sull’organizzazione
ricettiva del Libano e sulla capacità di gestire le sempre maggiori criticità,
politiche, organizzative, di sicurezza e sociali.
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